Quali e quanti beni si vogliono liberare dalle tante rendite e restituire ai giovani e al futuro?

di Claudio Cippitelli
Sociologo Cooperativa Parsec

Un articolo sulle politiche giovanili. Quando ho ricevuto questa richiesta, ho pensato che la cooperativa Folias non poteva chiedermi nulla di più eccentrico per la sua news letter. Politiche giovanili oggi? Viene da pensare che con oltre 2 milioni di Neet (Not in Education, Employment or Training) e  una disoccupazione giovanile al 40%  l’unica, vera politica a favore dei giovani in Italia  sia uscire  rapidamente da questo stato di cose.  Ma non è così, o perlomeno non è semplicemente così.  La condizione giovanile, infatti, non può ridursi ai soli tassi di occupazione ma attiene, più in generale, al ruolo e al posto che i giovani occupano nella società e, prima ancora, nella mente degli adulti.  Facciamo un po’ di storia.

In Italia, e più in generale in Europa, la scoperta della giovinezza come tema sociale avviene nel secondo dopoguerra. Prima, la giovinezza era servita come ideologia e mitologia  ai regimi totalitari  nati sulle ceneri della Prima Guerra Mondiale, in opposizione alle vecchie democrazie liberali. È quindi degli anni ’50 la scoperta dell’età giovanile come categoria sociale e i giovani, come classe, divengono da quegli anni  protagonisti della scena politica e sociale, incarnando un desiderio di cambiamento radicale. Per inciso, nello stesso periodo, epoca di boom economico, l’industria individua in  questo particolare segmento della società un forte potenziale di consumo, legato all’inedito ruolo che i giovani andavano rivestendo nella società:  approcci alla vita, nuove istanze, ricerca di  libertà e di regole sino ad allora indicibili (sex, drugs and rock and roll), mode e tendenze plurali e meticce, isolano questi nuovi soggetti sociali dal mondo di valori del passato,  prefigurando, allo stesso tempo, conflitti inconciliabili ed omologazione di massa.

La necessità di dare confini a questa nuova condizione, emerge dalla formulazione nelle scienze sociali di cinque tappe, cinque obiettivi che andrebbero raggiunti per approdare legittimamente nell’età adulta: 1. la fine degli studi, 2. un lavoro stabile, 3. uscire dalla casa dei genitori, 4. il matrimonio, 5. i figli. Prima questione: oggi, queste tappe si possono ancora pronunciare senza provare un senso di vergogna?

Ma torniamo alla storia. Sino agli anni ’90 nel nostro paese  non si rintracciano autentiche politiche giovanili, ovvero quella serie di norme ed azioni mirate alla salute, alla promozione della cultura, dell’istruzione, della formazione, l’accesso al mondo del lavoro ed alla casa, alla partecipazione politica e sociale dei e delle giovani. Una società ed una politica, piuttosto spaventate dalle istanze che le nuove generazioni andavano rivendicando in particolare dalla fine anni ‘60, tanto a livello politico che culturale,  preferiscono concentrarsi su quella che viene definita la questione giovanile, intesa largamente come disagio giovanile. Non è un caso che per un lungo periodo le uniche due leggi che mettono a disposizione delle risorse economiche per interventi rivolti ai giovani, saranno due testi  di legge  che si rivolgono esclusivamente a settori cosiddetti di “disagio”: il T.U. 309/90, il testo unico sulle droghe e le tossicodipendenze  e  la legge 216/91 sulla la devianza minorile. La droga e la devianza: ecco, non potendo prevenire l’antagonismo politico e culturale dei movimenti che, dal ’68 in poi, percorreranno l’occidente europeo e nord americano (si preferisce di gran lunga la repressione), lo sconcerto e la riprovazione adulta adotteranno un oggetto specifico, la droga, e ne faranno l’emblema della devianza giovanile. Non che il fenomeno, in particolare la grande diffusione dell’eroina iniettiva, non fosse una questione con una sua rilevanza sociale; tutt’altro. Il problema è che, mentre si andava preparando il disastro in termini di accesso delle giovani generazioni alla vita adulta, sembrava che l’unico vero problema fosse che i giovani si drogassero e deviassero. O il contrario, a scelta.

Verso la fine del secolo interviene la prima legge iscrivibile in un  quadro di politiche giovanili, la Legge 285 del 1997, “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” che istituiva il Fondo Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, finalizzato alla realizzazione di interventi a livello nazionale, regionale e locale per favorire la promozione dei diritti, la qualità della vita, lo sviluppo, la realizzazione individuale e la socializzazione dell’infanzia e dell’adolescenza. Una buona legge che promuove una logica di rete territoriale tra i diversi attori e le diverse istituzioni locali; enti che nel passato hanno finanziato interventi dedicati ai giovani in mancanza di politiche organiche nazionali (e di un ministero specifico, a differenza di gran parte degli altri paesi europei).  Oggi, la legge 285 è decisamente definanziata: si è passati dai 44 milioni di euro del 2009 ai 30 milioni e 600mila del 2014, che diverranno 28 milioni e 700 mila negli anni 2015 e 2016; risorse, comunque, destinate esclusivamente alle 15 città riservatarie (le metropoli).

Certo, con la legge 33 del 2000 non si fa più il militare e il  Servizio Civile con la legge 64/2001 diventa aperto anche alle ragazze,  su base esclusivamente volontaria. Certo, con la legge quadro di riforma dei servizi socio-assistenziali – la 328 del 2000 – e con i fondi europei altre risorse sono  disponibili per politiche specifiche a vantaggio dei giovani: ma i soldi sono sempre di meno (alcuni fondi nazionali sono stati semplicemente azzerati) e  le politiche risultano spesso fuori da ogni logica di pianificazione seria.

Intanto, il disastro in termini di accesso delle giovani generazioni alla vita adulta si è compiuto. Nonostante il perdurare di definizioni tanto offensive quanto idiote – bamboccioni, choosy, sdraiati – oramai la realtà è sotto gli occhi di tutti. Leggendo un recente articolo di Giuseppe Ragusa sul quotidiano  pagina 99, si può avere un’idea di cosa significa avere 27 anni nel nostro Paese: nel 1993 il 43% di costoro viveva in famiglia, oggi il 60,7%; le donne ventisettenni  erano occupate per il 52,3%, oggi per il 48,9%; nel ’93 il reddito di chi aveva 27 anni era di 15.308 euro e la ricchezza media netta di 156.852 euro, oggi rispettivamente di 11.711 euro e 77.408 euro. Questi numeri e queste percentuali non descrivono una condizione giovanile causata dalla sola crisi economica:  illustrano un mondo adulto tanto occupato a definire i propri figli (narcisisti, edipici, individualisti, afflitti dal complesso di Telemaco, ecc.) quanto preoccupato dalla prospettiva di cedere qualche spazio di potere. Insomma, penso che una vera politica a favore dei giovani debba partire da questa domanda: quali e quanti spazi si vogliono liberare dalle tante rendite e  restituirli al futuro? Quattordici miliardi per gli F35: e non dico altro.